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misurarsi

Quando lavoriamo con una famiglia che ha un retroterra culturale diverso dal nostro dobbiamo tenerne conto perché influisce su molti aspetti: la relazione mamma-bambino, le modalità di cura, il rapporto con i fratelli, la considerazione stessa della disabilità.

Con questo naturalmente non diamo un giudizio di valore, si tratta di un dato di fatto con il quale misurarci. La prima barriera da abbattere è quella linguistica.

Siamo in questo affiancati da mediatori linguistici e culturali, ma il problema non è il solo linguaggio verbale, quanto il portato sottinteso alle parole, il background culturale di riferimento.

La distanza linguistica quindi fa nascere nodi problematici, che nella maggior parte dei casi si sciolgono con il passare del tempo. Ci sono poi barriere culturali. Spesso le famiglie provengono da contesti estremamente poveri, dove non c’è ancora un’abitudine all’accoglienza e all’inclusione del bambino con disabilità.

Ci troviamo quindi a dover superare le reticenze dei genitori, talvolta la vergogna, soprattutto nei momenti iniziali della presa in carico. Il bambino con disabilità rende disabili i genitori che devono occuparsi di lui secondo modalità nuove, che non possono essere quelle usuali e che devono essere apprese. Un percorso faticoso e impegnativo.

Senza dimenticare poi che molto spesso la famiglia ha lasciato il proprio Paese d’origine per necessità e vive nel nostro Paese una condizione di precarietà, trovandosi sola e senza una rete familiare e relazionale: in generale gli stranieri vivono quindi una condizione di fragilità culturale, economica, di relazione sociale che in alcune occasioni caratterizza anche famiglie italiane, ma in misura minore. Una condizione di difficoltà che dobbiamo sempre tener presente.

 

Questo il racconto di Caterina Roncoroni, neuropsichiatra che sempre più spesso si trova a lavorare con famiglie provenienti da realtà culturali diverse da quella italiana. Dal numero #03 del magazine L’ABILITÀ NEWS.