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Tecnicamente La casa di l’abilità è una “residenzialità per minori con gravissime disabilità”. Ma questa fredda dicitura burocratica non spiega l’anima di uno spazio unico a Milano, una casa creata per colmare il vuoto della vita di bambini con disabilità che sperimentano sulla propria pelle una situazione di grave disagio e di difficoltà familiare. Un vuoto che ha il volto di diverse fragilità: quello della deprivazione dei contesti sociali precari della migrazione, quello dell’impossibilità di genitori affaticati da ritmi ingestibili o da un accanimento della vita, quello dell’incapacità di garantire le cure necessarie davanti a patologie che comportano un grosso carico infermieristico-assistenziale. O di disabilità intellettive che rendono madri e padri nell’impossibilità di vivere serenamente anche il più naturale e semplice momento della quotidianità (un pasto, il dormire, una doccia, una gita al parco) perché il bambino pur non avendo bisogno di un aiuto per respirare o per mangiare, ha gravi comportamenti che limitano ogni relazione umana.

Ma ha anche il volto della mancanza di alternative, di un sistema che arriva spesso tardi, magari con un decreto del Tribunale atteso e rincorso per alcuni anni, e che dispone l’affido -laddove le famiglie affidatarie sono sempre di meno – o che dichiara l’adottabilità quando il bambino è già grande e quindi ancora più difficile l’adozione.

Ma soprattutto il vuoto dei bambini della nostra Casa ha il volto del rifiuto, della negazione, della frustrazione di chi ha diritto ad essere accolto e, forse avrebbe più bisogno degli altri, di essere amato.

Maggiore è il vuoto, più urgente e necessario è il nostro intervento.

Ci prendiamo cura del bambino da quando apre gli occhi al mattino fino a quando cade nel sonno la sera. Ma anche durante il sonno non smettiamo di vegliarlo.
Nella maggior parte dei casi i bambini vivono nella Casa 7 giorni su 7, 24 ore su 24, non fanno eccezione Natale, Pasqua e le altre feste comandate.
12 operatori e 1 coordinatrice, ma anche 1 pullmino e 20 volontari: la filosofia non è erogare un servizio secondo standard e minutaggi, ma farsi carico del bambino, dei bisogni che lo rendono una persona unica ed esclusiva, garantendogli dignità.

I bambini che vivono ne La casa di l’abilità hanno patologie molto complesse: gravi ritardi cognitivi, evidenti disabilità fisiche, disfunzioni metaboliche (PEG, sondini, ossigeno) e altro ancora. Molto spesso hanno gravi problemi di comunicazione. Le loro richieste, i loro bisogni sono prevalentemente sguardi, sorrisi e pianti.

Ma non è solo la patologia che occupa il nostro tempo. È necessario lenire il dolore della distanza della famiglia con il contatto fisico, prendendoli in braccio (soprattutto quando abbiamo bambini di pochi mesi di vita) facendoli sentire importanti e protetti. E per questo ci sono indispensabili i volontari che con le loro piccole attenzioni quotidiane ci sostengono.

Per un operatore “lavorare in comunità” significa avere pazienza e saper attendere, accettare di procedere a piccoli passi. Vuol dire nutrire sconfinata fiducia nelle possibilità del bambino, incoraggiarlo e fare da cassa di risonanza alla sua creatività. Vuol dire accompagnare le sue mani e guidarle a fare un gioco, e imparare a leggere tutti i segnali.
Vuol dire essergli accanto in ogni cosa: nel mangiare, nel vestirlo, nell’igiene personale, prepararlo per andare a scuola, e poi – una volta a casa – garantirgli del tempo di qualità attraverso il gioco o una passeggiata al parco vicino.  Vuol dire anche affrontare tutte le difficoltà e le frustrazioni di un mondo spesso sordo e miope, o semplicemente noncurante. Con la segreta speranza di poterne cambiare un pezzetto.
Non è la patologia il discrimine sui bambini de La casa di l’abilità, è il contesto. La disabilità non è questione né sanitaria né di assistenza, ma di diritti.

La nostra sfida ad un sistema che, a parole accetta ICF e la Convenzione Onu sui diritti della persona con disabilità, ma nei fatti fa fatica non solo ad abbattere steccati ma a ripensare la complessità (e quindi la disabilità) come l’unica condizione possibile dell’esistenza, un apriori su cui dobbiamo costruire la nostra umanità.

Foto di Simona Brusa