Da caregiver a mamma

Di Laura Borghetto, direttrice di L’abilità 

“Signora l’iter si è concluso” la mamma di Anna sorride “Ats ha concesso 3 mesi di sollievo. Il Comune però solo 15 giorni.”

La mamma di Anna guarda attonita “Non capisco”.

“Il sollievo per una bambina con gravissima disabilità è pagato da una quota sanitaria e da una quota sociale. In questo caso lei per Ats ha diritto a 90 giorni di sollievo in un anno. Ma il Comune di questi 90 ne pagherà 15.”

“Quindi?”

“Quindi può fare solo 15 giorni di sollievo su 365… Il Sistema ha deciso”.

La mamma di Anna sbarra gli occhi e rimane in silenzio.

“75 giorni in meno per riprendere fiato. A meno che non sia io a pagare…”

Gli occhi le si riempiono di lacrime.

(Continua…)

La mamma di Anna è una Madre caregiver e questo non è un dialogo di finzione. Ma una comunicazione che il Sistema ci chiede di dare a una mamma che, come lei, cerca di vedersi riconosciuto un diritto. Il suo diritto al sollievo.

Madre caregiver è una definizione attuale nel 2024. Ancora troppo attuale, aggiungo io.

Non c’è femminismo o lotta per l’uguaglianza di genere nella società che riesca a scalfire questa diade, soprattutto quando parliamo di infanzia e disabilità.

Una costrizione per molte, una libera scelta per poche, pochissime madri.
Una non-scelta per la maggior parte delle madri che scivolano gradualmente, sotto il peso di un Sistema che scambia da decenni la responsabilità genitoriale per dovere, il materno per assistenza in solitudine, la libertà di amare in reclusione, l’impegno con il sacrificio, l’assistenza h. 24 per un assegno di 600 euro.

E poi ci sono le ragioni umane, profondamente umane che portano a questa trasformazione delle madri, lenta e inesorabile.

Si comincia dalla pancia e poco importa se il bambino non è stato nella tua pancia perché in affido o adottato; ci entra subito, comunque, appena lo accogli tra le braccia. E in quella pancia rimane a lungo, soprattutto se è più fragile degli altri, più chiuso nel suo mondo o più lento e perso nelle sue fatiche.

È il contatto della pelle, è la simbiosi che ti sveglia di notte, è il suo corpo che è il tuo, e viceversa. È la sua frustrazione che diventa il tuo sintomo: “Quanti tentativi falliti, quanti sintomi provati su di me – i sensi spalancati – come se tu li trasmettessi per osmosi: mal di pancia, insonnia, scatti, in una simbiosi assoluta, insieme misteriosa e carnale[1].

Si continua poi con le sale d’attesa dove cominciano gli incontri, quelli che ti salvano e quelli che ti fanno orrore. Sono le Altre. Quelle già trasformate o in via di trasformazione: depresse, sovrappeso, sciatte o troppo perfette. Ho sempre pensato che questo dipenda più dalla vigliaccheria di chi gli sta intorno che dal coraggio delle donne: padri impauriti, amici imbarazzati, medici non all’altezza e servizi vuoti o inesistenti che costringono ad essere coraggiose madri che non hanno alternative e non vogliono perdere la speranza.

Intanto il peso ti schiaccia. La cura, il ritmo, la pressione che imponi a te stessa insieme a quella che ti impone il Resto, la scuola, la sanità, la società. Più fuori di te regna la Mancanza, maggiore è dentro il peso. Più sei povera e sola, minori solo le vie di uscita.

Non è solo un peso psicologico o un peso percepito. Ci sono batterie di indici validati dalla letteratura scientifica[2] che lo misurano, definendolo ora stress, ora mancanza di benessere, ora scarsa qualità della vita. Burnout. Esplosione.

Qualcuno ha stilato un inventario:

  • carico oggettivo: carico associato alla restrizione del tempo dedicato a se stessi per svolgere compiti pratici e attività quotidiane
  • carico evolutivo: percezione di sentirsi tagliato fuori rispetto ai propri coetanei, solitudine e isolamento
  • carico fisico: sensazione di fatica cronica, stress fisico e problemi di salute somatica
  • carico sociale: causato dal conflitto del ruolo del caregiver con gli altri impegni di lavoro o familiari
  • carico emotivo: verso la persona presa in carico (rabbia, senso di colpa ecc.) [3]

A questi aggiungerei il carico finanziario poiché il caregiver ha la necessità di ridurre le ore di lavoro – con possibile diminuzione del salario – e far fronte ai costi per l’assistenza.

Non c’è voucher che tenga, da 750 euro – o peggio – da 600 euro, o prepensionamento o altri vantaggi economici che rimangono comunque pochi spiccioli in cambio di esistenze inchiodate.

Non sono gli studi sul caregiver nella disabilità o nelle malattie come l’Alzheimer o la demenza che ci riportano ai temi della solitudine o della depressione del caregiver donna. Secondo una recentissima ricerca della Ohio State University, 2 genitori su 3 (66%) soffrono di isolamento, solitudine ed esaurimento a causa delle richieste della genitorialità. L’indagine rivela inoltre che il 62% si sente esausto per le proprie responsabilità di genitore e quasi 2 genitori su 5 (38%) ritengono di non avere nessuno a sostenerli nel loro ruolo di genitori.

“La solitudine è stato dimostrato influire sia sulla salute fisica che mentale” conclude l’autrice Kate Gawlik.[4] “Quindi, qualsiasi cosa, dalla malattia cardiovascolare alla depressione, all’ansia, al declino cognitivo, persino il sistema immunitario può essere influenzato negativamente dalla solitudine percepita”.

Penso che, se il campione si fosse focalizzato sulle madri dei bambini con disabilità, le percentuali sarebbero ancora più alte.

Come intervenire?

Nel medio e lungo periodo occorre cambiare strutturalmente il Sistema (aumentare i posti nei Servizi di presa in carico, creare luoghi di ascolto e orientamento, incentivare politiche di welfare aziendale per le madri e strumenti di conciliazione dei tempi di cura e di lavoro) e questo richiede risorse, tempo e visione, ma soprattutto politiche di coprogettazione e di coprogrammazione che sappiano integrare il Sistema e le risorse disponibili.

Nell’immediato – L’abilità lo ripete da 25 anni – bisogna creare e sostenere i servizi di sollievo – quelli che oggi l’Amministrazione fatica sempre più a pagare, come se fossero un’extra e non un diritto sancito dalla legge (L.328/2000); e che invece rappresentano un riconoscimento vero di ciò che dobbiamo restituire subito alle madri caregiver: il tempo.

La mamma di Anna potrà godere del periodo di sollievo di 90 giorni se, ancora una volta, L’abilità cercherà i fondi per garantire il suo diritto al tempo, alla libertà, a gioire della vita, a provare la sensazione della cura su di sé.

L’abilità tapperà il buco perché la mamma di Anna ha diritto al sollievo per ritrovarsi, sentirsi di nuovo una donna libera che ha scelto di essere madre di sua figlia, non badante o assistente personale, e rincorrere quell’istante di felicità che solo il tempo ritrovato può dare.

(Continua…)

 

[1] Ada d’Adamo, Come d’aria, Elliot, 2026, p. 29.

[2] La valutazione dello stress del caregiver nella persona con demenza: revisione narrativa della letteratura. di Alessandra Tirrito, Elisa Ferrario, Lino Casiraghi, Anna Castaldo, in: Luoghi di cura, Numero 5-2019. Sono tanti gli strumenti di valutazione del carico del caregiver. Citiamo, ad esempio, la Caregiver Burden Scale (CBS), il Parenting Stress Index.

[3] CAREGIVER BURDEN INVENTORY (CBI)

[4] https://nursing.osu.edu/news/2024/04/25/new-survey-finds-loneliness-epidemic-runs-deep-among-parents

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