Ri-costruire lo spazio nella disabilità

A cura di Carlo Riva, direttore dei servizi di L’abilità Onlus

Il premio Nobel per la letteratura Alice Munro, recentemente scomparsa a maggio di quest’anno, ha scritto che “ci sono pochi luoghi in una vita, forse persino uno solo, in cui succede qualcosa; dopodiché ci sono tutti gli altri luoghi”.

Che tu sia un bambino o un adulto, la tua esistenza – come dice appunto Munro – è sempre un percorso di esperienze e quindi di emozioni correlate che appartengono a luoghi che ne hanno permesso il nascere, lo svilupparsi e poi magari il finire. C’è il luogo del primo cammino e quello del primo trauma, il luogo delle vacanze e quello del dolore, il luogo in cui siamo caduti e poi quello in cui ci siamo rialzati. Se è vero che viviamo perché siamo esseri posti tra le coordinate del tempo e dello spazio, quest’ultimo è quello che più ci coinvolge: noi occupiamo lo spazio con il nostro corpo, con i sensi lo percepiamo e con l’anima lo ricordiamo.

Questa correlazione tra corpo e luogo la si vede molto bene durante la crescita del bambino. Dallo stare chiuso nella posizione fetale comincia a estendersi e flettersi in un gioco motorio che lo porta ben presto a strisciare, andare carponi, alzarsi e correre per definire con il suo corpo e i suoi movimenti le lunghezze e le profondità dello spazio. È il desiderio intimo che lo spinge a scoprire, a spingersi oltre il minimo spazio occupato dal suo corpo immobile, a misurare e misurarsi per conquistare il mondo. Tutto questo vivere lo spazio può accadere solo se questo non è solo uno spazio di libero movimento fisico ma soprattutto uno spazio di libero movimento psicologico dove gli affetti e le conferme dell’adulto, in primis il genitore, consentono al bambino di star bene e crescere sano nel luogo del cuore preparato e continuamente allestito per lui. Winnicott, pediatra e psicoanalista, lo aveva ben rappresentato come l’allontanarsi dal luogo-porto sicuro della madre per poi ritornare a trovare una base (sicura) e ripartire di nuovo alla scoperta di nuovi spazi.

Se coniughiamo ora le parole luogo e bambino a disabilità che immagine scaturisce, quale paradigma nuovo dobbiamo considerare?

Senza addentrarci a riflettere su spazio pubblico e accessibilità, e restando quindi nei confini domestici, l’avvento della disabilità ridefinisce il luogo della crescita del bambino nei termini di movimento e occupazione. Dove si muove un bambino con un disturbo del comportamento? Quale spazio occupa un bambino con una tetraparesi spastica?

Lo tsunami della prima comunicazione di disabilità non investe solo la mente e i pensieri della coppia genitoriale e ne squilibra la strutturazione come persona e come progetto familiare (come ci ha raccontato una mamma nel gruppo di mutuo aiuto) ma irrompe nei luoghi preparati ad accogliere il bambino rivedendoli nella loro funzionalità. Come far spazio nella stessa stanza per il deambulatore, la carrozzina, il tavolo da statica? Cosa eliminare dalla stanza per avere tutto quelle che serve al bambino? Quale mobile far diventare l’appoggio per l’aspiratore e i sondini? Dove appendere l’agenda visiva per la comprensione del tempo? E questo luogo che era il luogo del futuro, del sogno, del diventare, invaso dalla materialità della disabilità che cosa diventa? È ancora il luogo di un futuro possibile o è diventato quello dell’immobilità del sogno? Quanto mina tutto questo la resilienza dei padri e delle madri?

Se noi siamo dentro un luogo dove accade tutto, dove vogliamo e vorremmo che accada il nostro sogno, questo ingombro quanto tocca i nostri affetti e il nostro star bene? Quanto riusciamo ancora a respirare se lo spazio è invaso dalla disabilità?

Il bambino iperattivo che corre in pochi metri quadri o con disturbo dello spettro autistico che si rifugia nell’angolo nella semioscurità, il bambino che non conosce il senso del pericolo o con paralisi cerebrale che richiede di uno spazio attrezzato, il bambino ipovedente che ha bisogno di un luogo di contrasto visivo o ipotonico che ha bisogno di spazi con più posture per poter agire sono le fotografie che raccogliamo dalle famiglie di bambini con disabilità che ricostruiscono appartamenti, stanze, luoghi dopo appunto l’avvento in ogni singola casa della disabilità.

Ricostruire diventa cosi parte del percorso di comprensione e accettazione perché riallestire e ricomporre sono atti che aiutano i genitori a far spazio alla disabilità dentro casa, a quel processo di adaptation dove in maniera positiva non si è invasi dalle conseguenze della disabilità ma si vive insieme cercando di mantenere ancora attuale e preservato il luogo di vita immaginato per ogni componente della famiglia.

La parola ricostruire non è solo la mission ma il pilastro su cui si regge la Casa di L’abilità, una comunità che accoglie bambini con gravissima disabilità.

In questo luogo dedicato si fa spazio al bambino e al suo bagaglio costituito da ausili, farmaci, ossigeno e magari un giocattolo. In questo luogo si ricostruisce tutto facendo attenzione allo spazio dove dovrà dormire, dove potrà stare la sua carrozzina, dove farlo visitare dagli specialisti. In questo luogo di confine tra ricostruire e mantenere o lasciare andare, il bambino trova un luogo di affettività che riempie l’armadio di nuovi abiti, trova nuovi giochi, incontra nuove braccia e mani di operatori e volontari che lo trattengono. Non è e non vuole essere una casa di cura ma un luogo dove la cura c’è ma non è ospedalizzata e asettica: il bambino e la disabilità sono gli attori in un luogo di benessere dove l’infermiera sta con l’educatore, il sondino con i colori a dita, il bottone della PEG con un volontario che suona il violoncello.

“Mia figlia Irene stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene”. Così scrive Valeria Parrella nel libro Lo spazio bianco. Maria, professoressa in una scuola media serale per lavoratori, rimane incinta di un uomo con il quale ha una storia sbadata che sbadatamente finisce. Irene nasce prematura, la vita appesa ad un filo; lo spazio bianco è così, per Maria, il luogo delle possibilità e dell’imprevedibilità, dell’incognito del domani, il luogo che non sappiamo come si riempirà, il luogo di una vita che non sappiamo come sarà e se sarà.

Bianco però non può essere solo il simbolo del vuoto.

Bianco è pure la somma di tutti i colori.

Sta a noi pensare a come non soccombere al vuoto del luogo bianco della disabilità e invece risollevarsi, da soli o con l’altro, chiedendo come ricostruirlo di colore.

 

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