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Recentemente Carlo Riva, direttore di l’abilità, ha partecipato ad un incontro dal titolo Zerosei si può, presso l’Università Milano-Bicocca. L’appuntamento è stato organizzato dal Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, associazione che offre occasioni di incontro e discussione tra persone che operano nel settore dell’educazione della prima infanzia, in luoghi diversi e in diverse situazioni professionali. Il seminario ha riscosso grande successo, con la presenza di oltre 250 educatori provenienti da tutte le scuole – nidi e materne – della Lombardia. Ecco l’intervento del dott. Riva.

 

Quando nasce un bambino con disabilità, i genitori, incapaci, cominciano un viaggio con sofferenza, senza una guida, nel dolore della quotidianità. Stress, disequilibrio personale e della coppia, aspettativa di una nuova speranza e di qualcuno o qualcosa a cui affidarsi accompagnano un evento a cui si è impreparati nella sua comprensione e soprattutto nel farlo diventare vita e non morte.

Nel tempo a seguire da quella che viene chiamata prima comunicazione cioè quando il medico comunica che qualcosa non va nella crescita del bambino, i genitori iniziano a porsi domande su cosa ne sarà di loro, cosa farà il loro bambino, come il mondo escluderà o includerà il figlio, il suo deficit.

La paura di essere catapultati fuori dal mondo e di diventare solo vittime innocenti dello sguardo degli altri nasce e si annida a partire dall’inserimento al nido o alla scuola d’infanzia. È proprio in quello spazio di incontro e di ricerca, di gioco e di sviluppo psicomotorio, tra quelle mura   che grondano colore e disegni, che racchiudono urla e prime lallazioni e poi parole, tra altri bambini e altri adulti – educatrici e genitori – che questo papà e questa mamma si muovono, guardinghi, in un nuovo viaggio che è parte o forse dentro l’altro viaggio cominciato alla comunicazione della diagnosi.

Che senso ha fare questo viaggio? Quale significato dare all’aprire la porta di un nido, di una scuola d’infanzia ad un bambino con disabilità complessa? È poi così importante che nel viaggio ci si fermi alla sosta del nido? O affrontare con la carrozzina il diventare grandi dei 3-6 anni? E se il viaggio diventa necessario, dove trovare la mappa e le istruzioni perché l’inclusione sia piena in una scuola accogliente e di sapere?

L’inserimento di un bambino con disabilità provoca sempre pensieri e riflessioni da parte delle educatrici e delle insegnanti per favorire al meglio l’inclusione, redigere un buon programma individualizzato e accompagnare i genitori nella relazione con la disabilità infantile.

Come giocare con il bambino? Che materiali presentare? È possibile un’attività di gruppo? Quale obiettivo porsi Come parlare con i genitori? Che cosa dire? Se non c’è una diagnosi, quali segnali cogliere per un invio agli specialisti e come dirlo alla mamma?

La giornata alla scuola d’infanzia di un bambino con autismo è diversa da quella di un bambino con paralisi cerebrale; il corpo dell’educatrice si posiziona diversamente nello spazio, le mani toccano e sfiorano con più o meno forza, il gioco può diventare stereotipato, il tempo talvolta vuoto.

Se è vero che la difficoltà di accogliere un bambino con disabilità è data dal pensiero sul cosa fare e come fare (in quale postura tenerlo, che gioco proporgli, in quale piccolo gruppo far decollare una relazione tra pari…) è d’altra parte ancor più vero che c’è una fatica analoga data dal dover trovare la lunghezza d’onda corretta per allearsi con i genitori.

Come rimandare la giornata di un bambino con disabilità ai suoi genitori, che vocabolario utilizzare perché la comunicazione dell’educatrice non sia una nuova comunicazione di dolore (il bambino non sa fare, non percepisce, non parla, non manipola, non guarda…) ma un dialogo costruttivo di empowerment familiare?

È infatti dall’immagine costruita tra nido e scuola dell’infanzia e fatta loro dalla mamma e dal papà che prende corpo la vita futura del bambino redatta nella mente e nel cuore dei genitori.

La responsabilità delle educatrici è grande nella loro verità perché possono aiutare la famiglia – grazie al potere delle parole rimandate – a riorganizzarsi e ridefinire le proprie dinamiche interne in quel processo di forza definito dal concetto di resilienza.

La responsabilità delle educatrici è grande nella loro professionalità perché permettono al bambino con disabilità di crescere al di là del limite della patologia – grazie al potere dell’educazione – in un progetto di vita che crede in un apprendimento possibile, in una comunicazione e relazione credibile, in un futuro da cambiare.