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“Quando una cosa succede, succede. Punto. E bisogna farsene una ragione”.
Così dice Marco quando comincia a raccontare la storia di suo figlio Mario, 7 anni, autistico. Bisogna farsi una ragione del fatto che quel bambino sarà guardato con sospetto e a volte con paura dagli adulti. Bisogna farsi una ragione del fatto che forse Mario non parlerà mai.

La diagnosi è stata fatta quando Mario aveva tre anni, “è stata mia moglie a sottoporre la questione ai medici, perché non parlava e non interagiva con gli altri. Avendo avuto altri figli prima di lui è stato facile capire che c’era qualcosa che non andava. Poi l’UONPIA ci ha indirizzati a l’abilità. Mario ha cominciato a frequentare il Centro Diurno di l’abilità e abbiamo visto dei miglioramenti nel suo modo di relazionarsi agli altri e di comunicare”.
“Dopo la diagnosi siamo stati per un po’ smarriti, poi abbiamo capito che non serviva a nulla arrabbiarsi, essere tristi, preoccupati perché così Mario non sarebbe andato da nessuna parte. La sua più grande difficoltà è il linguaggio, perché Mario non comunica – dice Marco, anche se poi subito si corregge – usa lo sguardo, io e la mamma seguiamo i suoi occhi per sapere cosa vuole. Mia moglie lo capisce al volo. La mamma è la mamma, ma io lo porto al parco. So che lui sta bene, mi sembra contento e per me va bene così.”

A indirizzare la famiglia di Ilian a l’abilità, invece, è stata la tata sudamericana vicina di casa che si occupava di un bambino con autismo, e quindi ne ha riconosciuto subito i sintomi in Ilian. La stessa tata ha suggerito di rivolgersi a l’abilità, già frequentata dal “suo” Paolo.
E così si è riuscito a diagnosticare il disturbo del bambino: autismo.

“La cosa più difficile – dice Kamir, il papà di Susantha – per la nostra famiglia è avere più spazio: viviamo in 25 mq in 4 e questo per lui e per il suo disturbo è molto problematico, racconta Kamir, srilankese in Italia da 15 anni. Poi è difficoltoso capire di cosa ha bisogno. Per questo è molto utile il corso di Parent Training che frequentiamo a l’abilità che ci insegna come comunicare con lui e cosa è meglio fare perché lui stia bene. Mia moglie non vuole che gli altri sappiano della sua disabilità. Non vuole essere messa al centro delle attenzioni, non ci piacciano le domande che potrebbero farci. Fino ad ora abbiamo raccontato agli altri che Susantha ha un ritardo nel linguaggio”.

Poi c’è Giovanni, papà milanese di Marta, 6 anni, sindrome di Prader Willi: “Cerco di fare del mio meglio per Marta, ma di certo non sono diventato una persona migliore da quando le è stata diagnosticata questa malattia. Perché è difficile. È come camminare su una strada in salita che ti obbliga a fare più fatica se vuoi andare avanti. E noi dobbiamo andare avanti e cercare di imparare qualcosa di nuovo”.

Marta è arrivata allo Spazio Gioco di l’abilità nel 2012, la sindrome di Prader Willi porta un ritardo motorio. Ha fatto il suo primo salto a 4 anni, e ha cominciato a correre a 6 anni. Non può fare i giochi scalmanati tipici della sua età, ma conosce perfettamente i nomi delle piante, osserva con curiosità la natura e si affeziona alle cose come fossero persone.

“La sua è una malattia genetica, non guarirà e non sappiamo come evolverà. Ma è una patologia che non ha una storia da raccontare, non dà segni evidenti, non genera interesse perché non la si conosce. Ecco, è questo che mi fa sentire emarginato, non va bene l’indifferenza. Tutte le volte alla visita per la riconferma dell’accompagnamento provo la sensazione di dover giustificare la sua invalidità”.

Queste sono le storie di alcuni dei nostri papà, papà che un giorno hanno iniziato il loro viaggio insieme ai loro bambini come se fossero senza valigie, a mani vuote, senza strumenti per sopravvivere in un posto sconosciuto. Però nonostante le difficoltà non hanno mai smesso di credere nei loro figli, e giorno dopo giorno di aiutarli a diventare grandi.
Noi li abbiamo incontrati lungo il loro viaggio, e gli abbiamo fornito le valigie per sostenerli. Le valigie sono i nostri servizi, il lavoro che ogni giorno facciamo per non lasciarli da soli.

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